Belmondo/Poiccard, piccolo omicida, corre a perdifiato per sfuggire alla polizia; Jean Seberg vende l’Herald Tribune sugli Champs Elysées, s’innamora, lo tradisce. Poco budget, molto amore per il B-movie americano, sguardi in macchina, jump-cuts, l’euforica sensazione che tutto stia per ricominciare. Irripetibile, e forever young. “Fino all’ultimo respiro appartiene, per sua natura, al genere di film in cui tutto è permesso” (Jean-Luc Godard).
Fra i più significativi autori cinematografici della seconda metà del Novecento, esponente di rilievo della Nouvelle Vague, Jean-Luc Godard, scomparso nel settembre di quest’anno, ha rappresentato un segno di demarcazione fra epoche e culture della storia del cinema. Nato nel 1930 in una famiglia dell'alta borghesia, dopo studi irregolari, si accostò al cinema alla fine degli anni Quaranta frequentando la cineteca e i cineclub parigini con un gruppo di amici (François Truffaut, Eric Rohmer, Jacques Rivette…). Nel 1951 iniziò a collaborare alla nuova rivista "Cahiers du cinéma", proponendo una scrittura critica fervida, attenta alle ragioni estetiche e morali del cinema. Con Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle), il suo primo lungometraggio, realizzò il ritratto di un giovane delinquente, girato in uno stile disinvolto, incurante delle regole e degli standard cinematografici e che procede per divagazioni, trovate visive e gestuali, citazioni pittoriche e letterarie, senza tuttavia dimenticare i miti e i modelli del cinema del passato.