2017 |
Palazzo del Cinema - Largo Firenze 1 - Ravenna
28 ottobre - 5 novembre
28 ottobre - 5 novembre 2017 | Palazzo del Cinema - Largo Firenze 1 - Ravenna

ESTASIA

In collaborazione con l’Associazione A.S.C.I.G. - Associazione per gli Scambi Culturali fra Italia e Giappone, curata da Marco Del Bene e Gabriele Scardovi, dalla quindicinale esperienza di Ottobre Giapponese, nasce estAsia, la nuova sezione del Festival,  dedicata ad una delle cinematografie più presenti nel cinema di genere, quella giapponese ed asiatica. Progettazione dell'immagine estAsia a cura della classe 3G del Corso di Grafica e Comunicazione dell'ITG Morigia 

 

Machines have less problems.
I’d like to be a machine, wouldn’t you?
Andy Warhol

 

Ipertrofie della relazione umano-macchinica 

Gabriele Scardovi 

Le macchine sono ovunque. Popolano le case in cui viviamo, le strade in cui ci muoviamo, i luoghi in cui lavoriamo e quelli in cui ci divertiamo, al punto che è difficile evitare che entrino di continuo in contatto con i nostri corpi, che ci circondino completamente per sorvegliarci, darci indicazioni, blandirci, sedurci, scandire il nostro tempo e plasmare le nostre abitudini. 

La presenza massiccia di macchine dalle forme, dimensioni e funzioni diversissime non è un evento fortuito: oggetti artificiali ci accompagnano da sempre, perché precedono la comparsa della nostra specie. Quelle più semplici, che erano utensili rudimentali ricavati dalla selce o dal legno allo scopo di tagliare, incidere, battere, scavare, si trovavano tra le mani di uomini che non erano sapiens, ma che tuttavia tentavano già di liberarsi dai limiti della loro costituzione fisica, per accedere a livelli superiori di operatività.

Si esprimeva fin da allora una spinta al potenziamento di sé che da quelle prime prove di progettazione e di produzione tecnologiche è stata più volte ribadita e che oggi sta culminando in modi di ibridazione tra l’umano e la macchina che contemplano da una parte la nuova globalità capillarmente distribuita della rete informatica, tendente a una connettività universale, e dall’altra il cyborg, convergenza realizzata tra singolo organismo vivente e artificio elettromeccanico. 

I due modi dovrebbero realizzare due fusioni distinte, ma che sono accomunate dalla stessa ricerca di un aumento delle possibilità: il primo porterebbe verso la nascita di un solo, grande spazio di memorie condivise, a sua volta potenziale premessa alla nascita di una sola, grande mente ospitante l’intero pensiero planetario e perciò capace di operazioni simboliche assolutamente inarrivabili per le nostre attuali menti particolari; il secondo porterebbe al superamento dei vincoli corporei individuali ereditati per via genetica, dunque per appartenenza biologica di specie, fino a che l’incontro tra carne e materia non vivente potesse originare una collaborazione tanto efficiente da essere ritenuta preferibile sotto ogni aspetto all’assetto puramente biologico. 

Non è detto che queste due fusioni non possano poi sovrapporsi l’una all’altra, magari producendo una forma di esistenza ancora del tutto inedita e la cui comprensione sembra essere a noi, per ora, tutto sommato inaccessibile, così come non è detto, procedendo in senso esattamente opposto, che debbano realizzarsi pienamente. Esistono certamente motivi, infatti, perché contro di esse si sviluppi una progressiva resistenza, a causa delle inquietanti ambiguità che si portano dietro. Se la rete informatica fatta per raccogliere tutte le memorie e renderle il più possibile mobilizzabili minaccia di cancellare ogni specificità biografica individuale a favore di un super-organismo in cui ogni singolo sarebbe soltanto un ingranaggio perfettamente rimpiazzabile, perciò privo di ogni valore intrinseco, il cyborg può costituire non un arricchimento del soggetto, ma il suo contrario, perché potrebbe accadere che sia la viva carne umana a dover subire da ultimo le limitazioni imposte dalla macchina, perdendo con ciò tutta la sua capacità metabolica e la sua adattabilità animale all’ambiente. 

Si può scoprire quale tra i due processi prevarrà? La macchina andrebbe vista come elemento ordinatore, posto in una continuità armonizzabile con l’esperienza umana, o andrebbe piuttosto intesa come un’insidia, se non addirittura come un’apertura verso un disordine che prelude alla fine del cosmo, al definitivo silenzio del nulla? Guardando al nostro attuale rapporto con le macchine è difficile rispondere ricomponendo l’alternativa, perché tutte le promesse che da esso si possono far derivare sono comunque contrassegnate dall’ambivalenza. 

A complicare il quadro, poi, c’è l’ingombrante presenza mediana del robot, che sotto il profilo concettuale è più arretrato rispetto al cyborg, ma che oggettiva ottimamente la fase di transito da un mondo di viventi organici a un mondo veramente post-antropico, perché costruito per sostituirsi progressivamente agli esseri umani nei compiti di fatica (nelle fabbriche e nei cantieri), di precisione (nelle sale chirurgiche), di assistenza sanitaria, di sorveglianza e – non lo si può davvero dimenticare – di spionaggio e di combattimento. Dall’automa antico, occasione di meraviglia per la sua somiglianza esteriore ai suoi creatori, alla meraviglia odierna del robot automatizzato, declinazione postmoderna e tecnologica del leggendario golem d’argilla, e che serve così bene il suo padrone da fare del tutto a meno di lui, la creatura imperfetta dell’altrettanto imperfetto creatore si eleva contemporaneamente fino ai ranghi di compagno-amico e di minaccia. 

Il perturbante, che nella cultura europea e nelle sue discendenze storiche ha derivato un dei suoi nomi più noti dal Sosia plautino, canzonato e preso a pugni da un Dio che ne ha assunto l’aspetto e che si diverte a provocargli uno stato di sofferta confusione, sembra allora abitare ancora stabilmente tra noi, salvo essersi aggiornato sotto paramenti cibernetici. Proprio a noi, allora, spetta il compito di elaborarne la portata tramite le nostre filosofie e le nostre opere d’arte, senza trascurare in particolare quelle che si rivolgono a un pubblico di massa, perché più di altre possono lasciare traccia nel nostro comune immaginario. Non c’è alcuna seria giustificazione nel privilegiare ciò che è prodotto in Europa o nella parte di mondo in cui la cultura euroamericana è sostanzialmente egemonica, perché apporti tra i più significativi a questo nostro immaginario hanno altre origini.  In particolare il Giappone…  



Il Giappone, un paese di automi?

Marco Del Bene

 

Lavorodipendenti, stacanovisti privi di sentimenti che con abnegazione si dedicano anima e corpo alla causa del bene supremo, che esso sia la nazione o l’azienda.  Quante volte, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, si è parlato dei giapponesi non come di esseri umani ma di automi, di formiche senza individualità che esistono solo come piccoli ingranaggi di un più grande meccanismo? Famiglia, affetti, desideri sembravano non trovare casa nel Paese del Sol Levante, pronto a concludere la sua missione di conquista del Mondo, non con i mezzi cruenti propri della guerra, ma attraverso la leva economica e finanziaria. Celebre la copertina di Newsweek in cui un robot composto da automobili Honda lanciava la sfida a Detroit, un tema trattato anche nella commedia Gung ho, di Ron Howard nel 1986. Altrettanto noto il romanzo del 1992 Sol Levante di Michael Crichton, e la sua trasposizione cinematografica, in cui una spietata multinazionale giapponese si prende gioco delle autorità statunitensi grazie alla superiore tecnologia di cui può disporre. O Dragon, scritto da Clive Cussler, nel 1990, in cui una micidiale organizzazione nazionalista giapponese pianifica la vendetta contro gli Usa, nascondendo una bomba atomica in una delle migliaia di Nissan stipate su gigantesche navi trasporto e lanciate alla conquista del mercato Nord americano.

Curioso come questa combinazione di potenza tecnologica e di minaccia esiziale sia attribuita al Giappone, che fino al 1867 è stato un paese agricolo e feudale, dominato da samurai armati di spade. Se è vero che l’artigianato giapponese era di altissima qualità, tanto da produrre automi meccanici, le karakuri ningyô – tra i più elaborati del tempo, è innegabile che il Giappone di 150 anni fa era tecnologicamente arretrato, povero e apparentemente destinato a essere, come gli altri paesi dell’Asia Orientale, preda delle grandi potenze imperialiste. Quello che accadde, e che per molti versi è stato rappresentato come un “miracolo”, fu che il Giappone riuscì, contro tutte le aspettative, a modernizzarsi, facendo proprio il modello capitalistico in cui la sua dirigenza tentò di coniugare “spirito giapponese e tecnologia occidentale”. Dopo soli 40 anni dalla restaurazione imperiale, che aveva posto fine al feudalesimo, l’esercito e la marina imperiali inflissero una cocente sconfitta all’impero zarista, di cui la battaglia navale di Tsushima è divenuta il simbolo.

Il Giappone aveva bruciato le tappe, come un treno – una delle metafore più usate nel Paese all’epoca – lanciato a grande velocità verso la modernità. In questo tumulto, che purtroppo sfociò nel totalitarismo degli anni Trenta, trovarono posto avanguardie, movimenti proletari, associazioni nazionaliste. Il Paese ebbe anche il suo Manifesto futurista, redatto dal poeta Hirato Renkichi, definito “il Marinetti del Giappone”, i giovani “perduti” ovvero i mobo e le moga (contrazione di modern boy e modern girl) che tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta contestavano i valori del sistema tradizionale, abbigliandosi e assumendo stili di vita “moderni”. Questi fermenti erano destinati a essere spazzati via dalla deriva nazionalista degli anni Trenta, che instaurò un regime di tipo fascista che arrivò a impedire tutte le forme di modernità degenerate, dalla musica jazz alle permanenti per i capelli. In quella fase storica, che portò il Giappone alla guerra prima con la Cina e poi con le potenze alleate, fra il 1937 e il 1945, il popolo giapponese fu sottoposto a un intenso indottrinamento volto a privarlo della sua umanità. Il nuovo codice di battaglia dell’esercito imperiale, impose la morte piuttosto della resa – e nessuna pietà per il nemico. Misticismo e tecnologia si fusero e un esempio di questo fu il caccia Zero, tragica e sublime fusione tra abilità umana e tecnica che, nella fase finale della guerra, giunse alle estreme conseguenze con la folle epopea dei kamikaze. Proprio negli anni della guerra divenne ubiquo il termine, particolarmente inquietante, di nikudan (proiettile di carne) a definire quello che i soldati giapponesi prima, e poi tutto il popolo nelle ultime fasi della guerra avrebbe dovuto fare: lanciarsi come un proiettile contro il nemico. I ragazzi leggevano fumetti come quelli di Tanku Tankurô (traducibile forse come “Carroarmatino”) il primo robot/cyborg del manga giapponese che sconfiggeva i nemici con le armi che uscivano dal suo stomaco corrazzato. D’altronde cosa altro erano i ragazzi mandati a morire in missioni suicide, se non la parte software di un corpo cibernetico di cui i kaiten (siluri bomba) e gli ôka (bombe razzo) costituivano l’hardware? Sono probabilmente questi i tragici prodromi della fioritura pop del Giappone postbellico.

Con la fine della guerra e la democratizzazione, resa possibile da una sconfitta tragica con una immane scia di distruzioni, culminata ma non esauritasi nelle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, il Giappone ha dovuto ricostruire la propria identità. Non potendo prescindere da quei traumi, in cui l’essere umano era divenuto “spendibile” come la sua controparte meccanica e in cui l’armageddon nucleare incombeva dietro l’angolo. La versione pacifica e industriosa del Giappone del secondo dopoguerra non ha smesso di produrre incubi immaginari, anzi probabilmente lo ha fatto per esorcizzare le paure collettive. Astroboy, Godzilla e poi i vari robot guerrieri attingo a questo immaginario, tentando di portare consolazione attraverso l’intrattenimento. Ma nella produzione giapponese l’elemento malinconico, il tema della perdita, della sofferenza e della morte sono sempre ben presenti, anche se trasmigrati nella risata. La rassegna di quest’anno cerca proprio di esplorare le varie sfaccettature del complesso rapporto tra uomo e macchina, per come è stato declinato in Giappone.

Macchine umane, umani-macchine, anime senz'anima. Modernità, post-modernità e tradizione nella cultura popolare del Giappone contemporaneo

L'edizione del 2017 dell'Ottobre giapponese, quest’anno inserita nel cartellone del Ravenna Nightmare avrà come tema principale il rapporto tra uomo, tecnologia e macchina nella cultura popolare del Giappone contemporaneo. I quesiti, che sono stati ampliamente esplorati in tutta la tradizione filosofica, sia europea che asiatica, sulla natura dell'uomo, della macchina e del rapporto dialettico fra essi ha favorito, in particolar modo ma non esclusivamente in Giappone, una vivacissima produzione culturale in tutti gli ambiti, da quello letterario e più propriamente artistico a quello della cultura pop. La rassegna, curata da Marco Del Bene e Roberto Scardovi, si compone di quattro proiezioni, introdotte dai curatori, in cui le pellicole sono state scelte sulla base di diverse tracce tematiche. In primo luogo l'ibridazione tra uomo e macchina e la perdita/conservazione dell'identità individuale (Ghost in the Shell - L'attacco dei cyborg (Inosensu)); la macchina come strumento di progresso ma anche di distruzione (Mobile suite Gundam Thunderbolt); l’uomo che ritrova la propria identità calandosi letteralmente dentro la macchina (Robo-G); la tecnologia che assorbe, muta e minaccia di annichilire l’uomo (Akira).



 Robo-G (Robojî), 2012, di Shinobu Yaguchi. 

Dal più acclamato regista di commedie del Giappone di oggi una vicenda agrodolce, dai toni grotteschi, in cui un anziano – interpretato dal mitico rocker giapponese Mickey Curtis - ritrova sé stesso grazie al suo “alter ego” robotico

Proiezione a ingresso gratuito, in collaborazione con l’Istituto Giapponese di Cultura di Roma.

 

Ghost in the shell 2 – Innocence (Inosensu) Giappone, 2004, 105’ di Mamoru Oshii

Ghost in the Shell - L'attacco dei cyborg (Inosensu) è il secondo film della serie, ispirata dall’omonimo manga di Masamune Shirow, scritto e diretto da Mamoru Oshii. Un’opera di grande spessore e colma di riferimenti, sostenuta dalla memorabile colonna sonora composta da Kenji Kawai.

 

Akira (Id.), 1988, di Katsuhiro Ôtomo 

Diretto da Katsuhiro Ôtomo e tratto dal manga da egli stesso disegnato, una battaglia tra corpi mutati e potenziati da governanti senza scrupoli nella Neo-Tokyo del 2019, rinata dopo la Terza guerra mondiale.

 

Mobile Suit Gundam Thunderbolt. December Sky 
(Kidôsenshi Gandamu Sandâboruto. December Sky), 2016, di Kô Matsuo
Tratto, con adattamenti e l’aggiunta di scene inedite, dall’omonimo original net anime e ambientato nell’”universo” di Gundam, è una cruda storia di guerra in cui il bene e il male si confondono, come il senso dell’essere. 



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