|
|||||||||||||||
|
|||||||||||||||
|
Non a caso Wenders coinvolge in questa sua opera registi come Nicholas Ray (il pittore Derwatt), Sam Fuller, Peter Lilienthal, Jean Eustache (i gangster mafiosi), autori che hanno regalato al cinema linguaggi nuovi, sperimentando attraverso i generi.
Tra angusti spazi metropolitani di una grigia Amburgo, appena rischiarata da una luce fredda e livida, il corniciaio svizzero Jonathan Zimmermann (Bruno Ganz), affetto da una grave malattia del sangue, probabilmente una rara forma di leucemia, si imbatte in uno strano cowboy che non si separa mai dal suo cappello, l’americano Tom Ripley (Dennis Hopper). Entrambi abbandonati alla propria solitudine, una solitudine interiore che li accompagna costantemente, l’uno nello scuro studio da corniciaio, pieno di oggetti e affollato di ricordi che, a dire dell’americano, tanto lo rappresentano, l’altro nella sua villa decadente, in compagnia soltanto della sua immagine e della sua stessa voce, impressa in un registratore cui racconta se stesso, confidandogli pensieri e paure, “so sempre di meno chi sono io e chi sono gli altri”. “Sono confuso...ho nostalgia di casa”, Tom è confusionario, strambo, cerca la conferma della propria esistenza riascoltando il suo diario vocale, scattandosi foto in cui imprime i propri stati d’animo, lacrime e sorrisi stampati in polaroid, per osservarsi, per cercarsi, per trovare una fine al suo smarrimento. I due uomini subiscono la fascinazione l’uno dell’altro, per motivazioni diametralmente opposte; Zimmermann è attratto dalla vita sregolata dell’altro, Tom è affascinato, invece, dal calore e dalla stabilità dello svizzero. Ognuno cerca nell’amico ciò che gli manca e ciò che forse desidera, o forse è semplicemente preda di un’attrazione che deriva proprio dalla loro diversità, come lo yin e lo yang, che per loro stessa natura si attraggono. “Lei è fortunato, appena termina un lavoro può vedere la sua opera”, confessa Tom all’amico corniciaio, lui che vive una vita priva di scopo, si arrabatta come mercante d’arte, complice di un pittore che per vendere le proprie opere si finge morto. La precarietà della sua esistenza e la malattia spingono Zimmermann a ritrovarsi coinvolto, per mano dello stesso Ripley, in una serie di loschi affari, improvvisandosi in un ruolo di killer che non gli è affatto confacente. Impacciato, maldestro, svogliato e soprattutto inesperto, il corniciaio svizzero si addormenta, lascia spuntare dall’impermeabile la pistola, inciampa e si addormenta mentre attende le sue vittime. La necessità di sospendere la certezza della sua fine, di trovare un futuro diverso da quello che lo attende e di riservare alla sua famiglia una vita migliore lo spingono ad accettare gli incarichi che la malavita gli propone, convincendolo a trasformare la sua natura sobria e placida in quella di un sicario. L’amico americano, di Wim Wenders è un libero adattamento de Il Gioco di Ripley (Ripley’s Game) di Patricia Highsmith, ma la storia che si dipana nel film è solo un pretesto per parlare del rapporto tra gli uomini, di come il Caso sia in grado di creare in pochi attimi relazioni strettissime, quando la possibilità di salvarsi la vita, o soltanto la voglia di uscire da una quotidianità senza scopo o un senso di solitudine, possono spingere persone, poco prima sconosciute, a stringere improvvisamente una solida amicizia. Lo sguardo di Wenders, più che sulla vicenda, si sofferma sui personaggi, accarezzandoli con occhio tenero e compassionevole; un Hopper più pacato e meno febbrile del solito regala un’interpretazione equilibrata e mai sopra le righe, Bruno Ganz arricchisce il placido corniciaio svizzero di una psicologia sfaccettata, soltanto sullo sfondo scorre la storia gangsteristica, che rimane di mero contorno, per lasciare spazio all’evolversi drammatico del sodalizio tra le due solitudini. Il regista, come nel precedente Nel corso del tempo, porta avanti una riflessione sul cinema, affidandosi alle coordinate del Noir gangsteristico americano. Tom Ripley è la metafora di quel cinema statunitense, affascinante, magnetico e spavaldo, mentre Zimmermann, metaforicamente, rappresenta l’occhio europeo rapito e catturato da uno stile fantastico, ben lontano da quelli che considera i suoi canoni. Non a caso Wenders coinvolge in questa sua opera registi come Nicholas Ray (il pittore Derwatt), Sam Fuller, Peter Lilienthal, Jean Eustache (i gangster mafiosi), autori che hanno regalato al cinema linguaggi nuovi, sperimentando attraverso i generi e gli stili, laureandosi come vere e proprie icone cinematografiche. L’impianto visivo gode della splendida fotografia di Robby Muller, che ritrae i paesaggi urbani con grigi solitari e spenti, come quelli delle stazioni o dell’aeroporto, per poi esplodere in improvvise deflagrazioni di colore che conferiscono all’immagine un tono onirico e visionario, come il verde, quasi fluo, dei prati contemplati dai protagonisti sul treno, il rosso del maggiolino della moglie del corniciaio o lo splendido tramonto che si accende di calde sfumature purpuree nell’epilogo del film, quando le solitudini tornano ad essere tali, e la dolce riflessione di Tom accompagna l’amico nel suo ultimo viaggio “ ... ce l'abbiamo fatta, ce l'abbiamo fatta.... Jonathan, ora devi pensare solo a te stesso”.
Mariangela Sansone |
||||||||||||||
Ravenna Nightmare Film Festival - via Mura di Porta Serrata 13 - 48121 Ravenna (Italy) - Tel. e Fax +39.0544.201456 e-mail info@ravennanightmare.itarea riservata |