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“La bellezza non è tutto… è l’unica cosa”
Non c’è più nessuno di fronte, nessuna destinazione finale, una qualunque va bene, come qualunque interattore. Il sistema funziona così all’infinito e la sua sola possibilità è quella di una altrettanto infinita involuzione. Nicolas Winding Refn con The Neon Demon, presentato in anteprima alla 69ª edizione del Festival di Cannes, a distanza di tre anni da Only God Forgives, dà forma ad un'opera malata e seducente, luccicante e bidimensionale come un'immagine riflessa in uno specchio. Si apre il sipario e l’immagine parla del vuoto, di tempi sospesi in un altrove non definito e non definibile, spazi che portano in non-luoghi, in cui la realtà è patinata e glaciale. Mentre nell’angeriano Puce Moment, dagli strass del vestito di Yvonne Marquis, emergeva voluttuosa una bocca carnosa e scarlatta, nell’ultimo film di Refn gli scintillii introducono alla sublimazione dell’occhio, affascinato, lusingato, corteggiato e infine fagocitato. Jesse (Elle Fanning), sedicenne timida e innocente, arriva a Los Angeles per intraprendere il lavoro di modella e si trova subito a confrontarsi con una realtà ostile che non risparmia nessuno. Sono tanti i lupi cattivi in cui si imbatte la ragazza, a cominciare dal proprietario del motel dove alloggia, Hank (Keanu Reeves), viscido e attratto dalle lolite, ma anche le sue colleghe non la risparmiano affatto; fin dal primo appuntamento in un’agenzia di modelle Jesse appare predestinata al successo e senza alcuno sforzo travolge le sue concorrenti, attirando ammirazione e invidia. Nel corso del film scopriamo però che Jesse non è un cerbiatto impaurito; la sua personalità si incastra perfettamente in quella cornice di personaggi negativi in cui la malvagità è un aspetto fondamentale della fusis umana. Dalla consapevolezza di non essere in grado di non fare nulla e di non aver doti particolari, se non quella di “essere carina”, emerge la competizione e la voglia di rivalsa, che si palesano trasformandola anche fisicamente. Gli specchi disseminati lungo tutto lo svolgimento filmico riflettono l’immagine bidimensionale dell’essere umano; lo specchio, mediatore e filtro, schermo in cui lo sguardo si sofferma sull’apparenza; è un dialogo mediat(ic)o tra simulacri baudrillardiani, in cui si osserva “la generazione di modelli di un reale senza origine o realtà: un iperreale”* Le immagini scorrono lente, si sovrappongono, in lotta tra loro, creando nuovi spazi tra una sovrapposizione e l’altra, in cui l’uno non esiste mai; tra gli interspazi vivono molteplici forme e si annidano fantasmi. Sempre in quegli interspazi lo sguardo è libero dai limiti dell’immagine, va oltre, un oltre che supera i limiti della prigione visiva, si confronta con la sua molteplice natura riflessa e nel suo restituirsi si muta, si trasforma, partorisce nuova carne; l’involucro si vuota e Jesse lascia affiorare la sua perfidia. La messa in scena refniana in The Neon Demon subisce l’eco del suo film precedente, Only God Forgives, minimalista, essenziale e stilizzato, avvolgendo l’opera di quella patina gelida cui il regista ha abituato il suo pubblico. I cromatismi vermigli accompagnano il climax metamorfico della modella, lo schermo è inondato da un sanguinolento rosso quando da bambina innocente si ritrova donna, quasi un’iniziazione sessuale sulla passerella, in un viaggio lisergico tra simboli esoterici ed alchemici, tanto cari a Jodorowsky. Questa sua ultima opera ha molto in comune anche con Fear-X, l’esordio americano di N.W.R.: diversi elementi segnano la cifra stilistica del regista, i tempi dilatati e una lentezza che contribuiscono ad alimentare la tensione, i dialoghi scarni e quasi superflui che lasciano spazio all’estetizzazione estrema dell’immagine, l’importanza che assume il tappeto sonoro che accompagna le immagini; se però in Fear-X il silenzio accompagnava la suspense, qui, come anche in Drive, il regista si avvale delle potenti musiche di Cliff Martinez per scandire i ritmi della narrazione. Refn, in The Neon Demon, impreziosisce la sua opera con una maniacale cura estetica, adottando un registro visivo che è ipnosi per gli occhi. Sovente la luce inonda la scena, una luce fredda, abbacinante, che nasconde qualcosa di sinistro, e come nei quadri di Edward Hopper in cui le solitudini umane si consumano alla luce del sole, così le luci dei riflettori dello star-system abbagliano le aspiranti starlette come falene. Le inquadrature bidimensionali, perlopiù frontali, schiacciano le figure sulla superficie, privandole di profondità; una metafora, forse, della società attuale in cui tutto è vissuto velocemente, di una vita che viaggia sui social e nella rete, si ferma alle immagini e non va oltre la superficie. Il regista tratteggia attraverso stratificazioni visive una consistenza a-materica della realtà, arida, svuotata da emozioni e palpiti profondi, ma che arriva come una lama, immediata, affascinando lo sguardo e disorientandolo. È l’elogio della vacuità, del vuoto che si cela sotto il sipario sgargiante del cosmo, della vita. Nelle scene finali, in un set che riecheggia Helmut Newton, la bidimensionalità è immersa nella fulgida luce del giorno, tra architetture lineari, e le immagini si offrono all’occhio gelide, quasi mortifere. La morte è un elemento costante in questo lavoro, scivola dalle prime scene sino alla chiusura del film, passando attraverso la camera settoria, e nonostante gli espliciti riferimenti sessuali, la sensualità non si fa mai morbosa, ma rimane legata a immagini lugubri; non a caso l’unico rapporto sessuale si consuma sul tavolo di un obitorio, in cui eros e thanatos si riuniscono, scambiandosi fluidi corporali in un orgasmo funebre. Non manca in quest’ultimo lavoro una spiccata vena horror ma, come spesso capita, la matrice orrorifica nei film di Refn corre in parallelo alla narrazione, è sottile, mai gridata e ostentata. Il regista non si avvale né del fantastico, né dell’onirico, ma fa affidamento, il più delle volte, alla naturale componente sadica e violenta dell’uomo. The Neon Demon è un film malato: all’inizio scivola lentamente tra immagini fredde e vuote, poi si addensa sino a divenire organico, si infiltra nei corpi deragliando verso la malattia e se del vampirismo ha la ricerca estrema dell’eterna giovinezza, in realtà questa è un’opera necrofila e cannibale, che si ciba della bellezza, ossessione di un mondo che non ha tempo e voglia di andare oltre lo sguardo, e fagocita le visioni con bramosia di possesso.
*Jean Boudrillard, Il patto di lucidità o l’intelligenza del male, in J. B., La scomparsa della realtà, trad. it. e note di A. Zuliani, Lupetti, Bologna 2009, p. 89 Jean Baudrillard, Simulacres et simulation. Nicolas Winding Refn - Nato a Copenaghen, all'età di otto anni con la famiglia si trasferisce a New New York dove trascorre gran parte dell'infanzia e dell'adolescenza. Dopo aver realizzato un cortometraggio, attira l'attenzione di un produttore, che gli offre 32 milioni di corone per trasformare il corto in un lungometraggio. Così a soli 24 anni, senza una formazione accademica, Refn realizza il suo primo film, Pusher – L’Inizio, che diventa il primo capitolo di una trilogia nota come la Trilogia del Pusher, terminata nel 2005 e diventata un fenomeno cult underground, peculiare per la sua rappresentazione realistica del mondo della droga al tempo stesso presentata con un grande gusto stilistico per la regia e le musiche, marchio di fabbrica che farà la fortuna del regista. Nel 1999 realizza il suo secondo lungometraggio, Bleeder, seguito da Fear X del 2003, il suo primo film in lingua inglese. Nel 2004 esce Pusher II – Sangue sulle mie Mani e nel 2005 Pusher 3 – L’Angelo della Morte, realizzati anche per una esplicita voglia da parte del regista di tornare in quel mondo malfamato dove la vita ha un valore così flebile. Nel 2008 realizza Bronson, che racconta la storia del criminale inglese Michael Gordon Peterson, meglio conosciuto come Charles Bronson; il film è la consacrazione di Refn, e viene premiato in molti festival in giro per il mondo sia per la genialità della messa in scena che per la straordinaria interpretazione del protagonista Tom Hardy. Nel 2009 Refn torna a dirigere l'attore danese Mads Mikkelsen (con il quale aveva già lavorato nella Trilogia del Pusher), nel film Valhalla Rising – Regno di Sangue, presentato nella selezione ufficiale del Toronto International Film Festival e fuori concorso alla 66° Mostra del Cinema di Venezia. Nel 2011 Refn presenta in concorso al Festival di Cannes il film d’azione Drive con Ryan Gosling che gli vale il premio per la Miglior Regia. All'uscita nelle sale il film si rivela un grandissimo successo in tutto il mondo, ricevendo anche una nomination ai Premi Oscar. Dopo il grande successo di Drive, il regista e l'attore Ryan Gosling si sono subito lanciati in un nuovo progetto: il film Solo Dio Perdona, anche questo presentato in concorso al Festival di Cannes prima di uscire nelle sale nel 2013. Nel 2014 viene scelto da Jane Campion per essere membro della giuria ufficiale del 67° Festival di Cannes e nel 2016 torna nuovamente al Festival francese, in concorso per la Palma D’Oro con la pellicola horror The Neon Demon. |
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